Il Cammino della Preghiera

13/15 marzo 2015

 

Siamo appena tornati dal ritiro spirituale sulla Paternità di Dio e la voce del Padre continua a risuonarci in cuore. Quante volte ci eravamo rivolti a Lui chiedendogli di farci sentire la sua presenza, di parlarci, di risponderci quando il vuoto si allargava nella nostra anima. Perché, perché? Gli avevamo urlato quando ci eravamo sentiti inchiodati in croce e Lui ci aveva fatto arrivare solo il suo silenzio, un silenzio pesante, disarmante, doloroso che ci aveva trafitto il cuore!

Non avevamo capito che Lui ci aveva riunito in Cristo e aveva siglato con noi una nuova alleanza e che il Vangelo di Gesù era stata la Sua risposta: una risposta di amore e di speranza, di condivisione paterna che esprimeva il suo dolore per le nostre sofferenze, che versava lacrime umane attraverso le lacrime del suo figlio amato, che ci avvolgeva nella sua tenerezza di madre, che si commuoveva, ci restituiva la salute e, se per il nostro bene, anche la vita.

Questa è la Buona Notizia che ci è stata consegnata dopo tre giorni di ritiro, questa è la forza della nostra vita, il messaggio che dobbiamo annunziare dai tetti delle nostre dimore, questo è il senso ultimo della nostra esistenza: il ritorno glorioso di tutti alla Casa del Padre.

Per dare la gioia a tutti di ricordare quello che ci siamo detti, ecco una diretta da Assisi.

In diretta da Assisi

 La mattina del sabato

Siamo ad Assisi nell’albergo Domus Pacis che ci ospita. Oltre trecento partecipanti, convenuti da diverse parti d’Italia, si riversano nella grande sala riunioni infiorata a festa per riceverle. Lo staff della Comunità del Pettirosso è pronto per le grandi occasioni: è formato da trentadue persone sorridenti e gentili che portano al collo un fazzoletto azzurro, chiuso da un fermaglio con il logo della comunità, sul quale è scritto “Ciao, Fratè”.

È sabato mattina, la giornata più densa di emozioni del nostro ritiro. Aspettiamo l’arrivo del nostro fondatore, padre Renzo, che ci parlerà della Paternità di Dio. È il ventesimo incontro di quello che noi chiamiamo “Il nostro cammino di Fede”. L’inno prescelto per l’incontro riempie con le sue note la sala e confonde le voci delle persone che, con abbracci e strette di mano, si salutano.

Alle nove e trenta padre Renzo arriva, il suo abito francescano svolazza mosso dal suo passo svelto, il suo volto è commosso. Improvvisamente, si fa silenzio e la voce dell’oratore ci fa arrivare il suo benvenuto.

<<Il tema di quest’anno è la paternità di Dio - esordisce con voce chiara – e vi devo fare una confidenza, ogni volta che finisce un ritiro, mi riposo un poco, ma poi mi metto a pensare al ritiro successivo. Siccome ero molto stanco e non stavo bene in salute, qualcuno mi ha chiesto se preferissi cancellare la data di questo ritiro e rimandare il nostro convegno a settembre. Sono andato in cappellina a pregare e ho chiesto a Gesù sacramentato che cosa volesse da me, di cosa volesse che parlassi, di darmi un consiglio. Spero che anche voi possiate presto trovare questa bella confidenza con Gesù. Ho sentito dentro di me una voce che rispondeva alla mia domanda e mi diceva: “Parla di mio Padre”. Ecco quindi che il tema del nostro incontro lo ha suggerito il Signore>>.

Questa confidenza ci sorprende, come fa a parlare con Gesù così naturalmente – ci chiediamo – per me non è possibile, mi sentirei fuori di testa. Se però guardiamo attentamente il suo volto mentre ce lo confida, capiamo che lui ci riesce veramente e ringraziamo Dio di averci portato in questo luogo. Padre Renzo ci legge una preghiera scritta da Dio Padre per ognuno di noi e noi comprendiamo il perché ci sentiamo sempre così lontani dalla Sua presenza amica. Ve ne facciamo ascoltare l’inizio, è Dio che parla e dice:

“Quando ti sei svegliato stamattina, ti ho osservato ed ho sperato che tu mi rivolgessi la parola chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che ti era accaduta ieri, però ho notato che eri molto occupato a cercare il vestito giusto da indossare per andare al lavoro. Ho continuato ad attendere mentre ti giravi in casa per sistemarti, sapevo che avresti avuto il tempo per fermarti qualche minuto e dirmi “Ciao”; però eri troppo occupato. Per questo ho acceso il cielo per te, l’ho riempito di colori e di canti d’uccelli per vedere se così mi ascoltavi, però nemmeno di questo ti sei reso conto…”.

<<Mi metto paura – dice fra Renzo a commento della preghiera – quando vedo che non abbiamo mai un po’ di tempo per noi, corriamo dalla mattina alla sera e non ci fermiamo un attimo per pensare all’essenziale. Quando dico “un po’ di tempo per noi” intendo “tempo per le realtà del cuore” perché, essendo noi stati creati a immagine e somiglianza di Dio, le necessità primarie sono quelle che ci mettono in relazione con Lui. Tutte le cose che assillano il nostro tempo e ci distraggono dal colloquio con Dio ci stanno distruggendo l’anima, pian piano ce la mordono e, ogni tanto, ne va via un pezzetto. Passano gli anni, invecchiamo, siamo stanchi e cosa abbiamo fatto per noi: niente! Possiamo avere avuto successo nel lavoro, possiamo avere avuto una bella casa con tutte le comodità, possiamo avere avuto tante conoscenze gradevoli o importanti, ma non abbiamo avuto un momento per costruire dentro di noi qualcosa che ci sazia, ci conforta, ci dà luce, serenità, ci fa brillare gli occhi. Ecco perché tante persone muoiono piene di rimpianti: “Se tornassi indietro, dicono”. Hanno fatto tutto per apparire e non si sono mai occupate di se stesse. La prima carità dobbiamo averla verso di noi, non verso gli altri, perché se non riusciamo ad avere serenità dentro di noi che cosa diamo agli altri? La nostra frenesia? La nostra instabilità?>>.

Le persone in sala sono assorte, meditano e si fanno tante domande: “Che cosa sto facendo io della mia vita? - si chiedono – perché sento così forte dentro di me questo vortice che pesa, mi sconquassa, mi fa essere aggressivo verso gli altri e mi leva la pace? Quanto tempo do a me stesso?”. Ci accorgiamo che invece di vivere corriamo, che invece di ammirare le bellezze del creato fuggiamo da noi stessi e ci stordiamo nella musica lanciata a pieno volume o nell’ascolto di trasmissioni televisive demenziali che ci impediscono di pensare. La voce del nostro pastore continua a parlare e, come se avesse letto nei nostri pensieri, dice:

<<Noi sentiamo in cuore la nostalgia di Dio, è come se ci mancasse qualcosa che non ci fa essere sereni, qualcosa di essenziale per cui siamo stati creati e che dobbiamo trovare per vivere e non sopravvivere a noi stessi, quel “qualcosa” si chiama “nostalgia” di un Padre che è modello di ogni paternità e di ogni maternità. Dio è Padre e Madre. Veniamo fuori da una Chiesa così maschilista che non ha mai posato lo sguardo sulla tenerezza di Dio: Dio è uomo e donna nello stesso tempo, nel senso che ha il cuore del padre e quello di una madre, non è corretto trasferire a Dio l’immagine che noi abbiamo della paternità umana, spesso egoistica e possessiva.

Tutti abbiamo del buono dentro di noi perché plasmati dall’energia divina, però, Dio ci lascia liberi, non vuole telecomandarci come se fossimo dei robot; Dio ci dà fiducia e aspetta da noi una risposta adeguata a quella scintilla di bene che è rimasta imbrigliata nella nostra interiorità. Ci ha dato l’intelligenza, la capacità di ragionare, la sensibilità e non vuole opprimerci… ci ha dato, insomma, tante possibilità, ma poi la risposta è nostra. La libertà è senz’altro un dono, ma se non la usiamo bene diventa una schiavitù. La libertà non è fare o dire quello che ci pare, l’abuso della libertà è sempre un grande male. L’uomo non si realizza facendo abuso della libertà, ma solo facendo riferimento a Dio>>.

Io come uso la mia libertà? – ci domandiamo – riesco a rispettare quella altrui? Mi è mai capitato di rispondere in modo insolente a chi aveva un’idea diversa dalla mia e avrebbe voluto proporre qualcosa di più costruttivo o armonioso? Sappiamo agire con delicatezza nei rapporti con gli altri? Mentre queste domande affiorano alla nostra coscienza, l’oratore continua:

L’idea malsana che Dio manda all’inferno i peccatori è una delle cose peggiori che gli uomini della chiesa abbiano attribuito a Dio: Dio non manda all’inferno nessuno, siamo noi che scegliamo la via che vogliamo. Dio non s’impone, si propone. Dio è leggero, è delicato, è in attesa di farsi abbracciare per riempirci di gioia. Un santo dice che Dio ha esultato creandoci perché, finalmente, aveva plasmato qualcuno cui poter perdonare.

Il massimo dell’amore di una persona è, infatti, il saper perdonare. A noi non è facile gestire la volontà del perdono perché abbiamo delle aspettative sulle persone ed è per questo che rimaniamo delusi. Dio, invece, sa che usiamo male i doni che ci ha dato e,  per svelarci il Suo volto, per farsi amare e riportarci a Casa, ha mandato suo Figlio. Dio non castiga, Dio corregge e, a volte, come tutti i padri, usa una forma forte perché vuole il nostro bene>>.

Questo proprio non lo immaginavamo, in verità qualcuno ce lo aveva detto ma noi non avevamo ascoltato, eravamo distratti, pensavamo ai nostri problemi irrisolti e non avevamo voglia di interrogarci sulle nostre posizioni, sulle nostre certezze e sui nostri “rancori”. Un Dio così ci spiazza, ci fa sentire ingrati, arroganti, presuntuosi e, soprattutto, stupidi. Dobbiamo ricominciare tutto daccapo, forse è questo il significato di “conversione”, vuol dire rinascere a noi stessi, rinascere al Padre, essere nuove creature. Come si fa? Chi è capace? Dove la troviamo l’umiltà di rinunziare al cumulo di nozioni che ci sono state impartite? È così comodo avercela con Dio e dirgli “Tu non mi capisci, tu non fai niente per me, non è vero che mi ami, io sono trasparente per te”. Padre Renzo, perché ci sconvolgi la vita e non ci lasci i nostri dubbi, le nostre comodità, la nostra via di fuga? Perché ci vuoi levare la visione di un Dio lontano, potente, che tuona dal cielo per castigare le nostre insolenze? Ancora una volta l’oratore entra nei nostri pensieri e con una tenerezza disarmante ci rapisce dicendo:

<<La grande prerogativa di Dio è l’umiltà. Egli si è fatto come noi perché voleva che noi diventassimo come lui, il destino dell’uomo è diventare come Dio per partecipazione. Un giorno vedremo Dio faccia a faccia, un giorno risorgeremo. Non finisce tutto al cimitero. Gesù è morto e risorto per dirci che il destino dell’uomo è risorgere, è vivere con Dio per sempre. Anche il nostro rapporto con la morte deve essere vissuto in maniera più serena e capire che la morte è quella porta che si apre per farci andare a vivere con Dio che è padre. Gesù ha detto “Io vado a prepararvi un posto e quando sarà pronto, vi verrò a prendere”, vi voglio portare in Paradiso con me. Noi guardiamo la morte come una punizione, ma da quando Gesù è morto e risorto, la morte è divenuta un premio.

Anche il Purgatorio è un dono, le anime del purgatorio sono già sante e vivono nel desiderio di vedere Dio. Il loro desiderio è così forte da farle soffrire intensamente ed è quella sofferenza d’amore che le purifica, le rende libere dall’amarezza, dagli scrupoli, dal rimpianto. L’Amore, solo l’amore ci congiunge a Dio>>… e ci racconta la parabola del Figliol prodigo, della pecorella smarrita, della dramma ritrovata e poi ci parla della Maddalena.

<<La parabola del Figliol prodigo - dice - è il paradigma dell’amore di Dio. Il Padre del racconto riassume in sé i caratteri più autentici del Dio della fede cristiana: è umile, perché, pur soffrendo, rispetta la decisione del figlio di andarsene da casa e gli dà in anticipo la sua parte di eredità. A quei tempi la figura del padre era temuta, era quella di un giudice severo che poteva ripudiare il figlio, allontanare dalla sua casa la sposa, decretare la morte di una figlia femmina, dare la prima genitura e benedire il figlio che indicava, dimenticandosi degli altri fino al punto di diffidarne e, sospettoso, farli anche allontanare. Il Padre della parabola, invece, limita se stesso perché la sua creatura esista nella libertà e sta alla finestra ad aspettare che il figlio ritorni. Il Padre descritto da Gesù, è un padre che ha sofferto per la lontananza del figlio e, quando torna, è felice come un bambino, fa festa, lo bacia, lo abbraccia, ordina ai servi di portare il vestito più bello, di mettergli lanello al dito, i calzari ai piedi e, nientedimeno, di ammazzare il vitello grasso che è la vera ricchezza della famiglia nella civiltà pastorale in cui il racconto è inserito>>.

Quest’ultima frase ci sconvolge, non avevamo mai pensato che Dio potesse soffrire per amore della sua creatura. Molti di noi sono genitori e spesso diciamo: “L’amore per mio figlio è tanto grande che mi fa male al cuore!”, è mai possibile che il Dio Creatore abbia inserito quella sofferenza d’amore nella nostra anima perché apparteneva a Lui e ce la voleva regalare? È mai possibile che quando si parla d’amore noi diventiamo come Lui? Allora è proprio vero che c’è un solo modo per vivere in grazia di Dio ed è quello di intenerirsi guardando i bambini, di commuoversi davanti ai sofferenti, di correre incontro a chi ha bisogno di aiuto, di non lasciarsi trasportare dai dissapori che vogliono levarci la pace, ma di guardare oltre, sempre più lontano, sempre più alto per entrare nel cuore del Dio creatore e riposare in Lui.

La mattinata è terminata, padre Renzo, com’è il suo solito, termina la catechesi con una barzelletta che scioglie la tensione emotiva e poi distribuisce alle persone il libretto scritto per il ritiro: è il suo modo di abbracciare tutti a uno a uno.

La valletta Sara dà, con il suo sorriso buono e la sua voce squillante, le istruzioni necessarie per il pranzo. Lo Staff accoglie le persone che hanno bisogno di sostegno, l’assemblea si scioglie e si trasferisce nell’enorme sala da pranzo dell’albergo. Qui il pranzo è servito ed è accompagnato dagli scoppi di risa di persone felici.

 

 

 

 

Il pomeriggio del sabato

Alle quindici e trenta le persone tornano in sala e si dispongono nuovamente all’ascolto. Tutti sanno che padre Renzo avrebbe parlato della sofferenza. Tra i presenti ci sono tanti genitori che hanno perso un figlio in giovane età, la loro sofferenza attende una carezza. Noi li amiamo in modo speciale e ogni ultimo venerdì del mese, per essere loro vicini, accorriamo nella chiesa di san Sebastiano fuori le mura in Roma dove il nostro pastore celebra per loro una santa Messa. Conosciamo i nomi di tutti i figli perché padre Renzo li nomina a uno a uno nella Messa e noi li preghiamo perché dal Paradiso intercedano per le nostre intenzioni. Una giovane sposa, che porta lo stesso nome di una figlia partita prematuramente per la Casa del padre, si avvicina alla madre, l’abbraccia forte e le dice: “Io porto il nome di sua figlia e la voglio abbracciare”. Quell’abbraccio, quel calore, quell’amore è valso più di ogni preghiera ed è stato accolto come una carezza di Dio. L’inno suona, padre Renzo si siede. Tutti tacciono e ascoltano.

<< Nel rapporto con Dio che posto occupa la sofferenza, il dolore? – esordisce l’oratore con una voce dolcissima - essa non è risparmiata ad alcuno. Il dolore e la tristezza, se non addirittura l’angoscia, spesso bussano alla nostra porta, per lo più all’improvviso. Nascono, allora, dentro di noi domande drammatiche ma assolutamente legittime: perché il Signore ci fa soffrire? Forse non vede? Mi ha dimenticato? Che male ho fatto per meritarmi questo? Dove sono dunque la bontà paterna e la fedeltà di Dio?

Queste domande appartengono alla fragilità umana, all’incapacità dell’uomo di leggere nelle proprie esperienze di vita la grandezza del disegno di Dio. La sofferenza umana ha sempre commosso il cuore di Dio. Egli soffre con noi quando soffriamo, però sa che le lacrime che versiamo ci fanno crescere. La sofferenza esiste perché noi abbiamo bisogno di essere purificati. Finché stiamo bene e la nostra vita scorre senza problemi, l’egoismo ci allontana da Dio, dai fratelli, da noi stessi. La prova unisce le persone, crea compassione, solidarietà. Se Dio permette la sofferenza, è per aiutarci a scoprire la giusta scala dei valori. Anche Gesù ha sofferto, anche Gesù ha avuto paura, anche Gesù si è sentito abbandonato dal Padre ed ha gridato “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” ed è proprio nella sua sofferenza che l’uomo Gesù si è fatto uno con l’umanità peccatrice, ha sperimentato nella sua carne lacerata la lontananza da Dio e, in un grido di dolore, l’ha redenta.

Il dolore, allora, serve all’uomo per diventare più uomo, serve all’umanità per sentirsi unita in un unico destino: quello di ritrovarsi salvata nell’amore di Dio.

Dopo questo excursus sul dolore la platea si fa seria, siamo arrivati al centro della nostra fede, al cuore della nostra esistenza, al crocevia tra quello che siamo e quello che diverremo, alla risposta da dare a Dio per accoglierlo o escluderlo dalla nostra vita.

Padre Renzo capisce, intuisce i nostri pensieri, i nostri sentimenti e li vuole toccare, ne vuole sentire la nervatura per sperimentare se ciò che ci ha fatto conoscere del Padre ha aumentato il nostro amore per Lui e ci ha dato sicurezza e pace. Cambia tono, sorride e invita le persone a dare la loro testimonianza, solo così potrà dire a Gesù: “Ho parlato di tuo Padre, ti è piaciuto? Dimmi se sono riuscito a farlo amare come lo amo io”.

Federico si propone e, con la sua carrozzella, è accompagnato al microfono.

 

 

Testimonianza di Federico Azzaro

 Abbiamo conosciuto Federico l’otto marzo del 2014 ad Assisi perché ha partecipato al nostro ritiro sulla preghiera. In quell’occasione ci ha stupito con la sua testimonianza piena di umorismo, di passione e di fede. Ricordo che, dopo averlo ascoltato, ci siamo commossi per la lezione di umiltà evangelica che ci aveva impartito.

Lui, costretto alla carrozzella per una malattia che lo aveva colto fin da bambino, aveva sentito forte la chiamata di Dio e avrebbe voluto consacrarsi al Signore nel sacerdozio. Non è stato esaudito perché la legge della chiesa l’ha reputato non idoneo a questo servizio in quanto legato indissolubilmente a una carrozzella. Federico ha accettato la sentenza con ragionevolezza e umiltà.

Nonostante la sua vita sia stata segnata dalla croce, ci ha confidato che ritiene ciò una benedizione perché, in questo modo, può testimoniare Cristo stando in croce insieme a Lui.

Una sua battuta ci ha riempito d’ilarità, quando, ridendo, ci ha raccontato della sua partecipazione ad Assisi a un convegno sul tema “Alzati e cammina!”.

Oggi, Federico torna a parlare e lo fa dopo l’intervento di padre Renzo sul “Perché della sofferenza nella nostra vita”. Ascoltiamolo:

<<Io, a marzo dell’anno scorso, sono stato operato al Bambin Gesù di Palidoro e là ho sperimentato veramente la paternità di Dio. 

Ci chiediamo: che senso ha il dolore? Forse a me il dolore l’ha insegnato Giobbe leggendo la Bibbia. La sofferenza di Giobbe è stata enorme e, per me, è stata un grande esempio. Perché dov’è che sperimentiamo Dio? Nel silenzio.

Mi ricordo che io stavo con le gambe divaricate, perché con il gesso le gambe rimangono divaricate, e la mia sofferenza era atroce. Ricordo che quella mattina, dopo quattro ore e mezzo d’intervento, ho guardato la carrozzina e mi è venuto da piangere, erano i miei piedi… e mi sono detto: “Guarda un po’ come sono importanti le cose che non hai… quando le hai, non te ne importa niente” e mi è uscita una lacrima; sempre guardando la carrozzina, poi, mi sono domandato: “Chissà i piedi miei quando li potrò riprendere” perché in quel momento ero immobile, divaricato sul letto. La mia mamma spirituale, che sta qui ad Assisi, in quell’occasione mi ha detto: “Federico, tu adesso non fare niente, non ti disperare perché non puoi pregare, e anche se hai portato con te il breviario non pregare, soffri e offri”.

Ricordo che quando sono arrivato al San Raffaele ho incontrato una grande famiglia di medici e terapisti con un’umanità assurda. Nonostante l’intervento, io sono arrivato là con le gambe piegate al terzo stadio, ossia al massimo, tanto è vero che alla valutazione iniziale mi hanno detto: “E ora cosa gli facciamo a questo? Qui non siamo a Lourdes, qui mica facciamo i miracoli!”. Io ho risposto: “E che mi fate? Sarà quello che Dio vorrà!” era un po’ un modo di abbandonarmi a Dio.

È stato allora che il mio amico Mariano, che sta qui con me e che ho conosciuto a Lourdes, mi ha chiamato e mi ha detto una cosa molto bella: “Tu in questo momento sei come una preda, fissa lo sguardo sull’obiettivo che hai, non ti fidare di quello che ti dicono, vai avanti diritto per la tua strada e abbi la mente pienamente libera per l’obiettivo che dovrai perseguire”. Io quelle parole le ho portate con me per tutta la permanenza in ospedale. A volte non c’è rosario, non c’è breviario, non c’è niente che tenga e ti salvi la vita quanto la parola di un amico, perché quella è fondamentale.

Pensate che oggi, come diceva padre Renzo, sono arrivato a usare dei tutori che mi permettono di avere una posizione eretta, sto in piedi, ritto e con questi tutori stiamo provando a fare degli esercizi di carico sui piedi. Oggi, mi accorgo di tutti i progressi che sto facendo e penso: “Sì è vero, Dio è Padre, ed è giusto che lo chiamiamo Padre. Noi, però, dobbiamo fare il nostro ruolo di figli. Un figlio può dire: “Sia fatta la tua volontà”, però, alla fine, è lui che deve metterci del suo, alla fine è lui che deve “andà de tigna”, alla fine è lui che deve avere quella forza di volontà che lo spinge a lottare, perché è vero, forse non si può dare un senso al dolore, ma si può dare senso alla vita e alla morte… gli si può dare senso, dobbiamo arrivarci stanchi però, stanchi, dobbiamo dire: “Io più di questo non posso fare!”.

I medici mi dicono sempre: “Ma tu dove vuoi arrivare, Federico?”. Forse loro credono che io voglia andare a fare la maratona di Roma. È capitato, a volte, che qualcuno abbia pensato: “Ma tu hai le gambe flesse di quattro gradi e pretendi di essere elastic-man, di combattere una spasticità così forte…” Io ho risposto: “Ma guarda che non hai capito niente, io vorrei solo avere un po’ di autonomia”.

Pensate che Dio, nella sua Paternità, mi ha tolto l’appellativo assurdo che i medici mi avevano appiccicato. Quando ero piccolino, i medici dicevano a mia madre: “Ah ma suo figlio è pigro!”… “Mio figlio è pigro?  - rispondeva mia madre – mio figlio ha una malattia”. Io quest’accusa l’ho portata con me fino a oggi che ho venticinque anni, finché un terapista mi ha detto: “Grazie, perché con te si lavora una meraviglia, hai una forza di volontà da leone!”. Mi ha liberato! (Applausi prolungati!), mi ha liberato, tu con quelle parole la ammazzi una persona, se tu dici a uno che è pigro quello se ne fa una colpa, e si chiede: “Perché gli altri riescono ed io no? Perché?”.

Questa è la Paternità di Dio, è una parola che ti dice: “Guarda che non è finita, vai avanti, non è finita, c’è ancora quel pizzico, quel passo che devi fare e se non lo fai tu non lo fa nessuno”. Mi ha liberato! E il messaggio che vi do oggi è questo: “Non vi arrendete! Non è vero che tutto va male! Non è vero (applausi fragorosi), a me Dio ha salvato mio padre, a me Dio ha dato una speranza in più, mi ha fatto capire che non ero io in colpa se non riuscivo a camminare, che non ero io che non m’impegnavo, ma era la frustrazione di quello che non sapeva fare il medico e si scaricava le colpe su di me (applausi, bravo!); però, non era nemmeno colpa sua perché è inutile che qualcuno dica: “Ma ci pensi quante cose avresti potuto fare se ti avessero fatto prima l’intervento?”. Ho risposto: “No, perché io devo andare avanti adesso, il presente è adesso, ed io con Gesù posso andare dove voglio, tanto lo so che a Dio piaccio così come sono”.

A tutti quelli che i figli gli sono morti, io vorrei dire: “Guardate che tutti noi ci rincontreremo in Paradiso e i vostri figli sono già uno spicchio di Paradiso, se no qui stiamo giocando, dovete essere sorridenti, dobbiamo essere sorridenti perché se no la sofferenza ci mette al tappeto. Nessun pugile è pugile se non è capace d’incassare, un pugile bravo incassa e colpisce al momento giusto, è così che dovete fare con la vita, è così che la vita vi offre occasioni, perché non è domani, è oggi che vi si chiede di vivere” (applausi ripetuti).

La mia ragazza ieri mi ha detto: “Vorrei tanto che uno dei due avesse le gambe per aiutarci”. Le ho detto: “Mbe, che vogliamo fa’? Guarda che se è così, lasciami subito, perché io il malessere tuo non lo posso colmare, non posso, lo sai a chi ti devi affidare? A Dio. Perché dietro i miracoli di Dio ci sta una fede e una forza di volontà incredibile, da Gesù ci andava gente che diceva: <<Se vuoi puoi guarirmi!>>”. Ragazzi, non sono cose da poco, non sono abra cadabra i miracoli di Gesù: “Se vuoi, puoi guarirmi… e lui rispondeva: lo voglio!”. Questa è fede! E io il miracolo completo a Gesù non gliel’ho mai chiesto, sapete perché? Perché da Gesù io ci voglio arrivare con le stimmate della carrozzina, io ci voglio arrivare così come sono, poi gli dico: “Quello che mi vuoi dare in più per vivere bene è ben accetto, se tu vuoi che il miracolo sia completo, che ci sia, ma io non te lo chiedo, perché deve essere un tuo dono”.  

Ecco qui il senso del dolore, ci sono due modi di portare la croce: uno, che ti lasci schiacciare e non è proprio il massimo; due, ABBRACCIATEVELA!

Non è bello soffrire, è una cazzata che ci hanno raccontato! Invece di dire tutti quei rosari, tutte quelle preghiere come se fossimo dei robot e poi ci ammazziamo l’uno con l’altro, andiamo negli ospedali, io dopo la terapia porto un pacco di merendine anche a chi non conosco, è poco, ma offro quello che ho. Il dolore non si deve sconfiggere, ma si deve condividere, perché così si dà senso alle cose. Allo stadio tutti corrono, ma solo uno conquista il premio. Un atleta è temperante in tutto, la preparazione spirituale ci rende atleti, non siamo stati fatti per essere schiacciati dalla croce, ma per saperla portare e condividere, siamo uomini liberi! Vi voglio bene>>.

Grazie! Applausi, bravo… e poi silenzio, nessuno osa più parlare,

nemmeno padre Renzo che, commosso, dice:

“Questa sera possiamo chiudere qui la nostra catechesi”.

 

 

 

Domenica mattina

È giunta la mattina dell’ultima giornata del ritiro, il tempo è volato. Le persone si alzano presto per andare a salutare Gesù sacramentato nella Porziuncola che si trova a due passi dal nostro albergo. Che gioia potere entrare nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli e pensare a San Francesco che, da quel luogo, ha salvato la Chiesa di Cristo che stava crollando, gli rivolgiamo un ringraziamento e torniamo in albergo dove ci attende una lauta colazione.

Lo staff è già all’opera, nuova gente è arrivata da Roma o dalle città limitrofe per partecipare all’ultimo giorno del convegno e lo staff la accoglie, dà loro spiegazioni, mostra loro i libri messi a disposizione che parlano delle opere di Dio, dona loro l’ultimo numero del nostro giornalino e indica i premi della riffa che chiuderà il nostro ritiro.

Alle nove e trenta padre Renzo parla e conclude la catechesi sulla paternità di Dio, poi il presidente della Comunità del Pettirosso fa il resoconto di tutte le opere svolte dalla Comunità, dei nuovi progetti in corso e, con commozione, comunica la realizzazione del pozzo trivellato in Congo grazie, anche. alla generosità delle offerte lasciate da molti dei presenti e dice il nome dell’opera realizzata, si chiama “Pozzo Ciao Fratè”. Un applauso ne sottolinea la soddisfazione. Poi arriva il momento della Santa Messa che è officiata in sala: quanta grazia, quanta fede, quanta pace ritrovata!

Un grazie dal profondo del cuore a Dio Padre che, tramite padre Renzo, ci ha fatto assaporare la Sua Paternità.

 

Per ricordare

Ritiri Spirituali

Fonte Colombo 2007

Ritiro La Verna 2007

Ritiro Collevalenza 2007

Ritiro S. Scolastica 2008

Ritiro Fara Sabina 2008

Ritiro La Verna 2008

Ritiro Assisi 2008

Ritiro Rocca di Papa 2008

Ritiro S. Scolastica 2009

Ritiro Assisi 2009

Ritiro Collevalenza 2010

Ritiro S. Scolastica 2010

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Ritiro La Verna 2011

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