Siamo appena tornati dal ritiro
spirituale sulla Paternità di Dio e la voce del Padre continua a
risuonarci in cuore. Quante volte ci eravamo rivolti a Lui chiedendogli
di farci sentire la sua presenza, di parlarci, di risponderci quando il
vuoto si allargava nella nostra anima. Perché, perché? Gli avevamo
urlato quando ci eravamo sentiti inchiodati in croce e Lui ci aveva
fatto arrivare solo il suo silenzio, un silenzio pesante, disarmante,
doloroso che ci aveva trafitto il cuore!
Non avevamo capito che Lui ci
aveva riunito in Cristo e aveva siglato con noi una nuova alleanza e che
il Vangelo di Gesù era stata la Sua risposta: una risposta di amore e di
speranza, di condivisione paterna che esprimeva il suo dolore per le
nostre sofferenze, che versava lacrime umane attraverso le lacrime del
suo figlio amato, che ci avvolgeva nella sua tenerezza di madre, che si
commuoveva, ci restituiva la salute e, se per il nostro bene, anche la
vita.
Questa è la Buona Notizia che
ci è stata consegnata dopo tre giorni di ritiro, questa è la forza della
nostra vita, il messaggio che dobbiamo annunziare dai tetti delle nostre
dimore, questo è il senso ultimo della nostra esistenza: il ritorno
glorioso di tutti alla Casa del Padre.
Per dare la gioia a tutti di
ricordare quello che ci siamo detti, ecco una diretta da Assisi.
In diretta da Assisi
La
mattina del sabato
Siamo
ad Assisi nell’albergo Domus Pacis che ci ospita. Oltre trecento
partecipanti, convenuti da diverse parti d’Italia, si riversano nella
grande sala riunioni infiorata a festa per riceverle. Lo staff della
Comunità del Pettirosso è pronto per le grandi occasioni: è formato da
trentadue persone sorridenti e gentili che portano al collo un
fazzoletto azzurro, chiuso da un fermaglio con il logo della comunità,
sul quale è scritto “Ciao, Fratè”.
È sabato mattina, la giornata
più densa di emozioni del nostro ritiro. Aspettiamo l’arrivo del nostro
fondatore, padre Renzo, che ci parlerà della Paternità di Dio. È il
ventesimo incontro di quello che noi chiamiamo “Il nostro cammino di
Fede”. L’inno prescelto per l’incontro riempie con le sue note la sala e
confonde le voci delle persone che, con abbracci e strette di mano, si
salutano.
Alle nove e trenta padre Renzo
arriva, il suo abito francescano svolazza mosso dal suo passo svelto, il
suo volto è commosso. Improvvisamente, si fa silenzio e la voce
dell’oratore ci fa arrivare il suo benvenuto.
<<Il tema di quest’anno è la paternità di Dio - esordisce con
voce chiara – e vi devo fare una confidenza, ogni volta che finisce un
ritiro, mi riposo un poco, ma poi mi metto a pensare al ritiro
successivo. Siccome ero molto stanco e non stavo bene in salute,
qualcuno mi ha chiesto se preferissi cancellare la data di
questo
ritiro e rimandare il nostro convegno a settembre. Sono andato in
cappellina a pregare e ho chiesto a Gesù sacramentato che cosa volesse
da me, di cosa volesse che parlassi, di darmi un consiglio. Spero che
anche voi possiate presto trovare questa bella confidenza con Gesù. Ho
sentito dentro di me una voce che rispondeva alla mia domanda e mi
diceva: “Parla di mio Padre”. Ecco quindi che il tema del nostro
incontro lo ha suggerito il Signore>>.
Questa confidenza ci
sorprende, come fa a parlare con Gesù così naturalmente – ci chiediamo –
per me non
è possibile, mi sentirei fuori di testa. Se però guardiamo attentamente
il suo volto mentre ce lo confida, capiamo che lui ci riesce veramente e
ringraziamo Dio di averci portato in questo luogo. Padre Renzo ci legge
una preghiera scritta da Dio Padre per ognuno di noi e noi comprendiamo
il perché ci sentiamo sempre così lontani dalla Sua presenza amica. Ve
ne facciamo ascoltare l’inizio, è Dio che parla e dice:
“Quando ti sei svegliato
stamattina, ti ho osservato ed ho sperato che tu mi rivolgessi la parola
chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che ti
era accaduta ieri, però ho notato che eri molto occupato a cercare il
vestito giusto da indossare per andare al lavoro. Ho continuato ad
attendere mentre ti giravi in casa per sistemarti, sapevo che avresti
avuto il tempo per fermarti qualche minuto e dirmi “Ciao”; però eri
troppo occupato. Per questo ho acceso il cielo per te, l’ho riempito di
colori e di canti d’uccelli per vedere se così mi ascoltavi, però
nemmeno di questo ti sei reso conto…”.
<<Mi
metto paura – dice fra Renzo a commento della preghiera – quando vedo
che non abbiamo mai un po’ di tempo per noi, corriamo dalla mattina alla
sera e non ci fermiamo un attimo per pensare all’essenziale. Quando dico
“un po’ di tempo per noi” intendo “tempo per le realtà del cuore”
perché, essendo noi stati creati a immagine e somiglianza di Dio, le
necessità primarie sono quelle che ci mettono in relazione con Lui.
Tutte le cose che assillano il nostro tempo e ci distraggono dal
colloquio con Dio ci stanno distruggendo l’anima, pian piano ce la
mordono e, ogni tanto, ne va via un pezzetto. Passano gli anni,
invecchiamo, siamo stanchi e cosa abbiamo fatto per noi: niente!
Possiamo avere avuto successo nel lavoro, possiamo avere avuto una bella
casa con tutte le comodità, possiamo avere avuto tante conoscenze
gradevoli o importanti, ma non abbiamo avuto un momento per costruire
dentro di noi qualcosa che ci sazia, ci conforta, ci dà luce, serenità,
ci fa brillare gli occhi. Ecco perché tante persone muoiono piene di
rimpianti: “Se tornassi indietro, dicono”. Hanno fatto tutto per
apparire e non si sono mai occupate di se stesse. La prima carità
dobbiamo averla verso di noi, non verso gli altri, perché se non
riusciamo ad avere serenità dentro di noi che cosa diamo agli altri? La
nostra frenesia? La nostra instabilità?>>.
Le persone in sala sono
assorte, meditano e si fanno tante domande: “Che cosa sto facendo io
della mia vita? - si
chiedono – perché sento così forte dentro di me questo vortice che pesa,
mi sconquassa, mi fa essere aggressivo verso gli altri e mi leva la
pace? Quanto tempo do a me stesso?”. Ci accorgiamo che invece di vivere
corriamo, che invece di ammirare le bellezze del creato fuggiamo da noi
stessi e ci stordiamo nella musica lanciata a pieno volume o
nell’ascolto di trasmissioni televisive demenziali che ci impediscono di
pensare. La voce del nostro pastore continua a parlare e, come se avesse
letto nei nostri pensieri, dice:
<<Noi sentiamo in cuore la
nostalgia di Dio, è come se ci mancasse qualcosa che non ci fa essere
sereni, qualcosa di essenziale per cui siamo stati creati e che dobbiamo
trovare per vivere e non sopravvivere a noi stessi, quel “qualcosa” si
chiama “nostalgia” di un Padre che è modello di ogni paternità e di ogni
maternità. Dio è Padre e Madre. Veniamo fuori da una Chiesa così
maschilista che non ha mai posato lo sguardo sulla tenerezza di Dio: Dio
è uomo e donna nello stesso tempo, nel senso che ha il cuore del padre e
quello di una madre, non è corretto trasferire a Dio l’immagine che noi
abbiamo della paternità umana, spesso egoistica e possessiva.
Tutti abbiamo del buono dentro
di noi perché
plasmati dall’energia divina, però, Dio ci lascia liberi, non vuole
telecomandarci come se fossimo dei robot; Dio ci dà fiducia e aspetta da
noi una risposta adeguata a quella scintilla di bene che è rimasta
imbrigliata nella nostra interiorità. Ci ha dato l’intelligenza, la
capacità di ragionare, la sensibilità e non vuole opprimerci… ci ha
dato, insomma, tante possibilità, ma poi la risposta è nostra. La
libertà è senz’altro un dono, ma se non la usiamo bene diventa una
schiavitù. La libertà non è fare o dire quello che ci pare, l’abuso
della libertà è sempre un grande male. L’uomo non si realizza facendo
abuso della libertà, ma solo facendo riferimento a Dio>>.
Io come uso la mia libertà?
– ci domandiamo – riesco a rispettare quella altrui? Mi è mai capitato
di rispondere in modo insolente a chi aveva un’idea diversa dalla mia e
avrebbe voluto proporre qualcosa di più costruttivo o armonioso?
Sappiamo agire con delicatezza nei rapporti con gli altri? Mentre queste
domande affiorano alla nostra coscienza, l’oratore continua:
L’idea malsana che Dio manda all’inferno i peccatori è una delle cose
peggiori che gli uomini della chiesa abbiano attribuito a Dio: Dio non
manda all’inferno nessuno, siamo noi che scegliamo la via che vogliamo.
Dio non s’impone, si propone. Dio è leggero, è delicato, è in attesa di
farsi abbracciare per riempirci di gioia. Un santo dice che Dio ha
esultato creandoci perché, finalmente, aveva plasmato qualcuno cui poter
perdonare.
Il
massimo dell’amore di una persona è, infatti, il saper perdonare. A noi
non è facile gestire la volontà del perdono perché abbiamo delle
aspettative sulle persone ed è per questo che rimaniamo delusi. Dio,
invece, sa che usiamo male i doni che ci ha dato e, per svelarci il Suo
volto, per farsi amare e riportarci a Casa, ha mandato suo Figlio. Dio
non castiga, Dio corregge e, a volte, come tutti i padri, usa una forma
forte perché vuole il nostro bene>>.
Questo proprio non lo
immaginavamo, in verità qualcuno ce lo aveva detto ma noi non avevamo
ascoltato, eravamo distratti, pensavamo ai nostri problemi irrisolti e
non avevamo voglia di interrogarci sulle nostre posizioni, sulle nostre
certezze e sui nostri “rancori”. Un Dio così ci spiazza, ci fa sentire
ingrati, arroganti, presuntuosi e, soprattutto, stupidi. Dobbiamo
ricominciare tutto daccapo, forse è questo il significato di
“conversione”, vuol dire rinascere a noi stessi, rinascere al Padre,
essere nuove creature. Come si fa? Chi è capace? Dove la troviamo
l’umiltà di rinunziare al cumulo di nozioni che ci sono state impartite?
È così comodo avercela con Dio e dirgli “Tu non mi capisci, tu non fai
niente per me, non è vero che mi ami, io sono trasparente per te”. Padre
Renzo, perché ci sconvolgi la vita e non ci lasci i nostri dubbi, le
nostre comodità, la nostra via di fuga? Perché ci vuoi levare la visione
di un Dio lontano, potente, che tuona dal cielo per castigare le nostre
insolenze? Ancora una volta l’oratore entra nei nostri pensieri e con
una tenerezza disarmante ci rapisce dicendo:
<<La grande prerogativa di Dio è l’umiltà. Egli si è fatto come
noi perché voleva che noi diventassimo come lui, il destino dell’uomo è
diventare come Dio per partecipazione. Un giorno vedremo Dio faccia a
faccia, un giorno risorgeremo. Non finisce tutto al cimitero. Gesù è
morto e risorto per dirci che il destino dell’uomo è risorgere, è vivere
con Dio per sempre. Anche il nostro rapporto con la morte deve
essere vissuto in maniera più serena e capire che la morte è quella
porta che si apre per farci andare a vivere con Dio che è padre. Gesù ha
detto “Io vado a prepararvi un posto e quando sarà pronto, vi verrò a
prendere”, vi voglio portare in Paradiso con me. Noi guardiamo la morte
come una punizione, ma da quando Gesù è morto e risorto, la morte è
divenuta un premio.
Anche il Purgatorio è un dono,
le anime del purgatorio sono già sante e vivono nel desiderio di vedere
Dio. Il loro desiderio è così forte da farle soffrire intensamente ed è
quella sofferenza d’amore che le purifica, le rende libere
dall’amarezza, dagli scrupoli, dal rimpianto. L’Amore, solo l’amore ci
congiunge a Dio>>… e ci
racconta la parabola del Figliol prodigo, della pecorella smarrita,
della dramma ritrovata e poi ci parla della Maddalena.
<<La parabola del Figliol prodigo - dice - è il paradigma
dell’amore di Dio. Il Padre del racconto riassume in sé i caratteri più
autentici del Dio della fede cristiana: è umile, perché, pur soffrendo,
rispetta la decisione del figlio di andarsene da casa e gli dà in
anticipo la sua parte di eredità. A quei tempi la figura del padre era
temuta, era quella di un giudice severo che poteva ripudiare il figlio,
allontanare dalla sua casa la sposa, decretare la morte di una figlia
femmina, dare la prima genitura e benedire il figlio che indicava,
dimenticandosi degli altri fino al punto di diffidarne e, sospettoso,
farli anche allontanare. Il Padre della parabola, invece, limita se
stesso perché la sua creatura esista nella libertà e sta alla finestra
ad aspettare che il figlio ritorni. Il Padre descritto da Gesù, è un
padre che ha sofferto per la lontananza del figlio e, quando torna,
è felice come un
bambino, fa festa, lo bacia, lo
abbraccia, ordina ai servi
di portare il vestito più bello, di mettergli l’anello
al dito, i calzari ai piedi e, nientedimeno, di ammazzare il vitello
grasso che è la vera ricchezza della famiglia nella civiltà pastorale in
cui il
racconto
è inserito>>.
Quest’ultima frase ci
sconvolge, non avevamo mai pensato che Dio potesse soffrire per amore
della sua creatura. Molti di noi sono genitori e spesso diciamo:
“L’amore per mio figlio è tanto grande che mi fa male al cuore!”, è mai
possibile che il Dio Creatore abbia inserito quella sofferenza d’amore
nella nostra anima perché apparteneva a Lui e ce la voleva regalare? È
mai possibile che quando si parla d’amore noi diventiamo come Lui?Allora è proprio vero che c’è un solo modo per vivere in grazia di
Dio ed è quello di intenerirsi guardando i bambini, di commuoversi
davanti ai sofferenti, di correre incontro a chi ha bisogno di aiuto, di
non lasciarsi trasportare dai dissapori che vogliono levarci la pace, ma
di guardare oltre, sempre più lontano, sempre più alto per entrare nel
cuore del Dio creatore e riposare in Lui.
La
mattinata è terminata, padre Renzo, com’è il suo solito, termina la
catechesi con una barzelletta che scioglie la tensione emotiva e poi
distribuisce alle persone il libretto scritto per il ritiro: è il suo
modo di abbracciare tutti a uno a uno.
La valletta Sara dà, con il
suo sorriso buono e la sua voce squillante, le istruzioni necessarie per
il pranzo. Lo Staff accoglie le persone che hanno bisogno di sostegno,
l’assemblea si scioglie e si trasferisce nell’enorme sala da pranzo
dell’albergo. Qui il pranzo è servito ed è accompagnato dagli scoppi di
risa di persone felici.
Il pomeriggio
del sabato
Alle quindici e trenta le
persone tornano in sala e si dispongono nuovamente all’ascolto. Tutti
sanno che padre Renzo avrebbe parlato della sofferenza. Tra i presenti
ci sono tanti genitori che hanno perso un figlio in giovane età, la loro
sofferenza attende una carezza. Noi li amiamo in modo speciale e ogni
ultimo venerdì del mese, per essere loro vicini, accorriamo nella chiesa
di san Sebastiano fuori le mura in Roma dove il nostro pastore celebra
per loro una santa Messa. Conosciamo i nomi di tutti i figli perché
padre Renzo li nomina a uno a uno nella Messa e noi li preghiamo perché
dal Paradiso intercedano per le nostre intenzioni. Una giovane sposa,
che porta lo stesso nome di una figlia partita prematuramente per la
Casa del padre, si avvicina alla madre, l’abbraccia forte e le dice: “Io
porto il nome di sua figlia e la voglio abbracciare”. Quell’abbraccio,
quel calore, quell’amore è valso più di ogni preghiera ed è stato
accolto come una carezza di Dio. L’inno suona, padre Renzo si siede.
Tutti tacciono e ascoltano.
<< Nel rapporto con Dio che posto
occupa la sofferenza, il dolore? – esordisce l’oratore con una voce
dolcissima - essa non è risparmiata ad alcuno.
Il dolore e la tristezza, se non
addirittura l’angoscia, spesso bussano alla nostra porta, per lo più
all’improvviso. Nascono, allora, dentro di noi domande drammatiche ma
assolutamente legittime: perché il Signore ci fa soffrire? Forse non
vede? Mi ha dimenticato? Che male ho fatto per meritarmi questo? Dove
sono dunque la bontà paterna e la fedeltà di Dio?
Queste domande
appartengono alla fragilità umana, all’incapacità dell’uomo di leggere
nelle proprie esperienze di vita la grandezza del disegno di Dio.
La sofferenza umana ha sempre commosso il cuore di
Dio. Egli soffre con noi quando soffriamo, però sa che le lacrime che
versiamo ci
fanno crescere. La sofferenza esiste perché noi abbiamo bisogno di
essere purificati. Finché stiamo bene e la nostra vita scorre senza
problemi, l’egoismo ci allontana da Dio, dai fratelli, da noi stessi. La
prova unisce le persone, crea compassione, solidarietà. Se Dio permette
la sofferenza, è per aiutarci a scoprire la giusta scala dei valori.
Anche Gesù ha sofferto, anche Gesù ha avuto paura, anche Gesù si è
sentito abbandonato dal Padre ed ha gridato “Dio mio, Dio mio perché mi
hai abbandonato?” ed è proprio nella sua sofferenza che
l’uomo Gesù si è fatto uno con l’umanità peccatrice, ha
sperimentato nella sua carne lacerata la lontananza da Dio e, in un
grido di dolore, l’ha redenta.
Il dolore, allora, serve
all’uomo per diventare più uomo, serve all’umanità per sentirsi unita in
un unico destino: quello di ritrovarsi salvata nell’amore di Dio.
Dopo
questo excursus sul dolore la platea si fa seria, siamo arrivati al
centro della nostra fede, al cuore della nostra esistenza, al crocevia
tra quello che siamo e quello che diverremo, alla risposta da dare a Dio
per accoglierlo o escluderlo dalla nostra vita.
Padre Renzo capisce,
intuisce i nostri pensieri, i nostri sentimenti e li vuole toccare, ne
vuole sentire la nervatura per sperimentare se ciò che ci ha fatto
conoscere del Padre ha aumentato il nostro amore per Lui e ci ha dato
sicurezza e pace. Cambia tono, sorride e invita le persone a dare la
loro testimonianza, solo così potrà dire a Gesù: “Ho parlato di tuo
Padre, ti è piaciuto? Dimmi se sono riuscito a farlo amare come lo amo
io”.
Federico si propone e, con
la sua carrozzella, è accompagnato al microfono.
Testimonianza di
Federico Azzaro
Abbiamo conosciuto
Federico l’otto marzo del 2014 ad Assisi perché ha partecipato al nostro
ritiro sulla preghiera. In quell’occasione ci ha stupito con la sua
testimonianza piena di umorismo, di passione e di fede. Ricordo che,
dopo averlo ascoltato, ci siamo commossi per la lezione di umiltà
evangelica che ci aveva impartito.
Lui, costretto alla
carrozzella per una malattia che lo aveva colto fin da bambino, aveva
sentito forte la chiamata di Dio e avrebbe voluto consacrarsi al Signore
nel sacerdozio. Non è stato esaudito perché la legge della chiesa l’ha
reputato non idoneo a questo servizio in quanto legato indissolubilmente
a una carrozzella. Federico ha accettato la sentenza con ragionevolezza
e umiltà.
Nonostante la sua vita sia
stata segnata dalla croce, ci ha confidato che ritiene ciò una
benedizione perché, in questo modo, può testimoniare Cristo stando in
croce insieme a Lui.
Una sua battuta ci ha
riempito d’ilarità, quando, ridendo, ci ha raccontato della sua
partecipazione ad Assisi a un convegno sul tema “Alzati e cammina!”.
Oggi, Federico torna a
parlare e lo fa dopo l’intervento di padre Renzo sul “Perché della
sofferenza nella nostra vita”. Ascoltiamolo:
<<Io, a marzo dell’anno scorso, sono stato operato al Bambin Gesù
di Palidoro e là ho sperimentato veramente la paternità di Dio.
Ci chiediamo: che senso ha il
dolore? Forse a me il dolore l’ha insegnato Giobbe leggendo la Bibbia.
La sofferenza di Giobbe è stata enorme e, per me, è stata un grande
esempio. Perché dov’è che sperimentiamo Dio? Nel silenzio.
Mi ricordo che io stavo con le
gambe divaricate, perché con il gesso le gambe rimangono divaricate, e
la mia sofferenza era atroce. Ricordo che quella mattina, dopo quattro
ore e mezzo d’intervento, ho guardato la carrozzina e mi è venuto da
piangere, erano i miei piedi… e mi sono detto: “Guarda un po’ come sono
importanti le cose che non hai… quando le hai, non te ne importa niente”
e mi è uscita una lacrima; sempre guardando la carrozzina, poi, mi sono
domandato: “Chissà i piedi miei quando li potrò riprendere” perché in
quel momento ero immobile, divaricato sul letto. La mia mamma
spirituale, che sta qui ad Assisi, in quell’occasione mi ha detto:
“Federico, tu adesso non fare niente, non ti disperare perché non puoi
pregare, e anche se hai portato con te il breviario non pregare, soffri
e offri”.
Ricordo che quando sono
arrivato al San Raffaele ho incontrato una grande famiglia di medici e
terapisti con un’umanità assurda. Nonostante l’intervento, io sono
arrivato là con le gambe piegate al terzo stadio, ossia al massimo,
tanto è vero che alla valutazione iniziale mi hanno detto: “E ora cosa
gli facciamo a questo? Qui non siamo a Lourdes, qui mica facciamo i
miracoli!”. Io ho risposto: “E che mi fate? Sarà quello che Dio vorrà!”
era un po’ un modo di abbandonarmi a Dio.
È stato allora che il mio amico
Mariano, che sta qui con me e che ho conosciuto a Lourdes, mi ha
chiamato e mi ha detto una cosa molto bella: “Tu in questo momento sei
come una preda, fissa lo sguardo sull’obiettivo che hai, non ti fidare
di quello che ti dicono, vai avanti diritto per la tua strada e abbi la
mente pienamente libera per l’obiettivo che dovrai perseguire”. Io
quelle parole le ho portate con me per tutta la permanenza in ospedale.
A volte non c’è rosario, non c’è breviario, non c’è niente che tenga e
ti salvi la vita quanto la parola di un amico, perché quella è
fondamentale.
Pensate che oggi, come diceva
padre Renzo, sono arrivato a usare dei tutori che mi permettono di avere
una posizione eretta, sto in piedi, ritto e con questi tutori stiamo
provando a fare degli esercizi di carico sui piedi. Oggi, mi accorgo di
tutti i progressi che sto facendo e penso: “Sì è vero, Dio è Padre, ed è
giusto che lo chiamiamo Padre. Noi, però, dobbiamo fare il nostro ruolo
di figli. Un figlio può dire: “Sia fatta la tua volontà”, però, alla
fine, è lui che deve metterci del suo, alla fine è lui che deve “andà
de tigna”, alla fine è lui che deve avere quella forza di volontà
che lo spinge a lottare, perché è vero, forse non si può dare un senso
al dolore, ma si può dare senso alla vita e alla morte… gli si può dare
senso, dobbiamo arrivarci stanchi però, stanchi, dobbiamo dire: “Io più
di questo non posso fare!”.
I medici mi dicono sempre: “Ma
tu dove vuoi arrivare, Federico?”. Forse loro credono che io voglia
andare a fare la maratona di Roma. È capitato, a volte, che qualcuno
abbia pensato: “Ma tu hai le gambe flesse di quattro gradi e pretendi di
essere elastic-man, di combattere una spasticità così forte…” Io
ho risposto: “Ma guarda che non hai capito niente, io vorrei solo avere
un po’ di autonomia”.
Pensate che Dio, nella sua
Paternità, mi ha tolto l’appellativo assurdo che i medici mi avevano
appiccicato. Quando ero piccolino, i medici dicevano a mia madre: “Ah ma
suo figlio è pigro!”… “Mio figlio è pigro? - rispondeva mia madre
– mio figlio ha una malattia”. Io quest’accusa l’ho portata con me fino
a oggi che ho venticinque anni, finché un terapista mi ha detto:
“Grazie, perché con te si lavora una meraviglia, hai una forza di
volontà da leone!”. Mi ha liberato! (Applausi prolungati!), mi ha
liberato, tu con quelle parole la ammazzi una persona, se tu dici a uno
che è pigro quello se ne fa una colpa, e si chiede: “Perché gli altri
riescono ed io no? Perché?”.
Questa è la Paternità di Dio, è
una parola che ti dice: “Guarda che non è finita, vai avanti, non è
finita, c’è ancora quel pizzico, quel passo che devi fare e se non lo
fai tu non lo fa nessuno”. Mi ha liberato! E il messaggio che vi do oggi
è questo: “Non vi arrendete! Non è vero che tutto va male! Non è vero
(applausi fragorosi), a me Dio ha salvato mio padre, a me Dio ha
dato una speranza in più, mi ha fatto capire che non ero io in colpa se
non riuscivo a camminare, che non ero io che non m’impegnavo, ma era la
frustrazione di quello che non sapeva fare il medico e si scaricava le
colpe su di me (applausi, bravo!); però, non era nemmeno colpa
sua perché è inutile che qualcuno dica: “Ma ci pensi quante cose avresti
potuto fare se ti avessero fatto prima l’intervento?”. Ho risposto: “No,
perché io devo andare avanti adesso, il presente è adesso, ed io con
Gesù posso andare dove voglio, tanto lo so che a Dio piaccio così come
sono”.
A tutti quelli che i figli gli
sono morti, io vorrei dire: “Guardate che tutti noi ci rincontreremo in
Paradiso e i vostri figli sono già uno spicchio di Paradiso, se no qui
stiamo giocando, dovete essere sorridenti, dobbiamo essere sorridenti
perché se no la sofferenza ci mette al tappeto. Nessun pugile è pugile
se non è capace d’incassare, un pugile bravo incassa e colpisce al
momento giusto, è così che dovete fare con la vita, è così che la vita
vi offre occasioni, perché non è domani, è oggi che vi si chiede di
vivere” (applausi ripetuti).
La mia ragazza ieri mi ha
detto: “Vorrei tanto che uno dei due avesse le gambe per aiutarci”. Le
ho detto: “Mbe, che vogliamo fa’? Guarda che se è così, lasciami
subito, perché io il malessere tuo non lo posso colmare, non posso, lo
sai a chi ti devi affidare? A Dio. Perché dietro i miracoli di Dio ci
sta una fede e una forza di volontà incredibile, da Gesù ci andava gente
che diceva: <<Se vuoi puoi
guarirmi!>>”. Ragazzi, non sono
cose da poco, non sono abra cadabra i miracoli di Gesù: “Se vuoi,
puoi guarirmi… e lui rispondeva: lo voglio!”. Questa è fede! E io il
miracolo completo a Gesù non gliel’ho mai chiesto, sapete perché? Perché
da Gesù io ci voglio arrivare con le stimmate della carrozzina, io ci
voglio arrivare così come sono, poi gli dico: “Quello che mi vuoi dare
in più per vivere bene è ben accetto, se tu vuoi che il miracolo sia
completo, che ci sia, ma io non te lo chiedo, perché deve essere un tuo
dono”.
Ecco qui il senso del dolore,
ci sono due modi di portare la croce: uno, che ti lasci schiacciare e
non è proprio il massimo; due, ABBRACCIATEVELA!
Non è bello soffrire, è una
cazzata che ci hanno raccontato! Invece di dire tutti quei rosari,
tutte quelle preghiere come se fossimo dei robot e poi ci ammazziamo
l’uno con l’altro, andiamo negli ospedali, io dopo la terapia porto un
pacco di merendine anche a chi non conosco, è poco, ma offro quello che
ho. Il dolore non si deve sconfiggere, ma si deve condividere, perché
così si dà senso alle cose. Allo stadio tutti corrono, ma solo uno
conquista il premio. Un atleta è temperante in tutto, la preparazione
spirituale ci rende atleti, non siamo stati fatti per essere schiacciati
dalla croce, ma per saperla portare e condividere, siamo uomini liberi!
Vi voglio bene>>.
Grazie! Applausi, bravo…
e poi silenzio, nessuno osa più parlare,
nemmeno padre Renzo che,
commosso, dice:
“Questa sera possiamo
chiudere qui la nostra catechesi”.
Domenica
mattina
È giunta la mattina
dell’ultima giornata del ritiro, il tempo è volato. Le persone si alzano
presto per andare a salutare Gesù sacramentato nella Porziuncola che si
trova a due passi dal nostro albergo. Che gioia potere entrare nella
Chiesa di Santa Maria degli Angeli e pensare a San Francesco che, da
quel luogo, ha salvato la Chiesa di Cristo che stava crollando, gli
rivolgiamo un ringraziamento e torniamo in albergo dove ci attende una
lauta colazione.
Lo staff è già all’opera,
nuova gente è arrivata da Roma o dalle città limitrofe per partecipare
all’ultimo giorno del convegno e lo staff la accoglie, dà loro
spiegazioni, mostra loro i libri messi a disposizione che parlano delle
opere di Dio, dona loro l’ultimo numero del nostro giornalino e indica i
premi della riffa che chiuderà il nostro ritiro.
Alle nove e trenta padre
Renzo parla e conclude la catechesi sulla paternità di Dio, poi il
presidente della Comunità del Pettirosso fa il resoconto di tutte le
opere svolte dalla Comunità, dei nuovi progetti in corso e, con
commozione, comunica la realizzazione del pozzo trivellato in Congo
grazie, anche. alla generosità delle offerte lasciate da molti dei
presenti e dice il nome dell’opera realizzata, si chiama “Pozzo Ciao
Fratè”. Un applauso ne sottolinea la soddisfazione. Poi arriva il
momento della Santa Messa che è officiata in sala: quanta grazia, quanta
fede, quanta pace ritrovata!
Un grazie dal profondo del
cuore a Dio Padre che, tramite padre Renzo, ci ha fatto assaporare la
Sua Paternità.